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Nato a Tassullo il 28 dicembre 1733, Carlo Antonio Pilati fu un grande mediatore di cultura e di pensiero tra le nazioni europee. Figlio di “quella classica terra della valle di Non”, egli ebbe una formazione “ideologicamente a mezza via” tra la cultura italiana e quella tedesca che lo portò non solo ad essere un naturale mediatore tra i due mondi, ma anche a farsi uno dei più qualificati interpreti di quel fermento che dava un forte sostegno alla volontà di riforma affiorante, qua e là, nei vari Stati italiani di fine secolo XVIII. Uno dei suoi maestri preferiti fu Paolo Sarpi, che come frate veneziano, vagheggiava una Chiesa cattolica libera da cure terrene.
Studiò in Germania, a Salisburgo, a Lipsia e a Gottinga, dedicandosi al diritto e alla storia, avvicinandosi, nel contempo alle idee illuministiche. Nel 1767 si trasferì a l’Aia e poi a Coira, dove fondò il “Giornale letterario” che doveva essere un veicolo di cultura europea. Il suo radicalismo gli creò difficoltà per cui continuò una vita errabonda. Tornato in patria nel 1779, partecipò vivamente alle contese tra il partito vescovile e quello consolare, ponendo al servizio del secondo il suo anticurialismo e propugnando riforme scolastiche e giudiziarie. Quando Bonaparte invase il Trentino, nel 1796, si schierò contro i francesi. Nel 1801 presiedette il Consiglio Superiore del governo del Trentino e del Tirolo meridionale, avendo come segretario Giandomenico Romagnosi. Morì nel suo paese natale il 28 ottobre 1802.

Carlo Antonio Pilati, insigne giureconsulto e filosofo illuminista, famoso soprattutto per aver scritto "Di una riforma d’Italia ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le perniciose leggi d’Italia" in cui afferma che il malcostume italiano è la conseguenza diretta della Controriforma.
E’ indispensabile, scrive, sottrarre ogni ricchezza alla Chiesa, trasformare i sacerdoti in funzionari pubblici, restituire allo Stato i beni in possesso del clero. Confronta poi i Paesi protestanti, in cui non esistono beni della Chiesa e in cui circolano benessere e prosperità, con la miseria in cui versava il popolo allora in Italia, perché le ricchezze sottratte dai preti allo Stato erano nelle mani della Chiesa e quindi di prelati incapaci di gestirle. Nobiltà e clero per lui rappresentavano modi di vita anacronistici che ostacolavano lo sviluppo della società.
Nel suo "Riflessioni di un italiano sulla Chiesa; relazione del regno di Cumba" immagina uno Stato in cui arrivano i missionari cattolici che portano in un regno pagano, in cui esiste l’uguaglianza fra tutti i cittadini, il senso del dovere e in cui tutti lavorano per vivere, la corruzione, la disonestà, le disuguaglianze sociali, la violenza e l’oppressione. Il libretto è sopratutto interessante perché mostra il meccanismo psicologico e sociale con cui i missionari assoggettano un po’ alla volta il popolo e lo trasformano in una massa corrotta, sottomessa e manovrabile, ridotta in miseria, non solo dalle troppe tasse versate per il clero ma anche dalla mancanza di libertà di pensiero e di azione imposta dai religiosi. La reazione del clero non si fece attendere e Pilati dovette fuggire prima in Olanda poi in Svizzera dopo aver subito un’aggressione fisica a Trento ordinata quasi sicuramente dall’ultimo vescovo conte Vigilio Thun.